C’è la vita reale. E poi c’è la finzione. Le due dimensioni si somigliano; a volte moltissimo, altre per nulla, ma restano comunque distinte. […] Ogni opera d’arte è, inevitabilmente, una versione alternativa della realtà.
Con queste parole di Leonardo Staglianò (per L’arte del dialogo, Franco Cesati Editore) vi do il benvenuto nell’articolo di oggi per mezzo del quale parleremo di editing dei dialoghi.
A parlare di descrizioni, espedienti, stile e voce abbiamo speso fin troppe parole, e se ne trovano altrettante numerose in giro per il web, nei manuali e nei corsi. In realtà, anche sui dialoghi troviamo risorse pressocché infinite. A livello generale, si ripetono però sempre le solite tre cose:
1. Il dialogo deve essere veritiero.
2. Il dialogo deve essere credibile rispetto al personaggio che lo pronuncia.
3. Il dialogo deve essere accompagnato da abbastanza didascalie ma mai troppe.
Fin qui, lo do per scontato, ci siamo. Ora, però, cerchiamo di ribaltare questi tre assunti e di applicarli nel nostro lavoro di immaginazione e immedesimazione (ricordate? articolo #26).
1. Il dialogo deve essere veritiero.
Certo, il dialogo deve assomigliare o, meglio, imitare la realtà, pur non essendo (e non potendo essere) realtà. Il dialogo, come la narrativa tutta, però, può essere verità (una distinzione sottile di cui abbiamo già discusso). Prendiamo questo:
Che ci fai qui dietro? chiese Addie.
Ho pensato che così è più difficile che qualcuno mi veda.
A me non interessa. Lo verranno a sapere. Qualcuno ci vedrà. Passa dalla strada, entra dalla porta principale. Ho deciso di non badare a quello che pensa la gente. L’ho fatto per troppo tempo – per tutta la vita. Non voglio più vivere così. Dà l’idea che stiamo facendo qualcosa di sbagliato o scandaloso, qualcosa di qui vergognarci.
Il dialogo, tratto da Le nostre anime di notte di Kent Haruf (NN editore), come leggete, è vero, ma non reale. Soprattutto l’ultima battuta di Addie, il suo mini-monologo, non è intervallato da beat o tag (didascalie di verbo o di movimento) né da particolari segnalazioni di pause e sospensione. Ce la mettiamo noi, noi lettrici, in automatico, una sospensione, probabilmente prima di Non voglio più vivere così. E pensandoci bene, anche il Ho pensato che così è più difficile che qualcuno mi veda ha una strana costruzione che nel parlato accade raramente. Quel ho pensato “riprende la domanda”, ma nello scambio di parole “reali” sarebbe stato un “così nessuno mi vede”. Invece, con le parole l’autore ha giocato, e così anche con i dialoghi. E leggerlo a voce alta gli toglie qualcosa, lo depotenzia, rispetto al leggerlo internamente, immerso nel contesto. E a proposito di contesto, passiamo al secondo punto.
2. Il dialogo deve essere credibile rispetto al personaggio che lo pronuncia.
Ma certo che lo deve essere, lo diciamo sempre: un bambino non parla come un adulto e viceversa, un personaggio ferito non parla come un personaggio allegro e viceversa… ma è sempre così? Leggiamo:
– Non sospetteranno nulla?
– No. E anche se avessero qualche sospetto, nessuno oserebbe aprir bocca, perché tutti hanno paura di me. In mezzo a loro non c’è nessuno che abbia coraggio.
– Sì che c’è!
[…]
– Nemecsek!
– Sì, Nemecsek; sono proprio io. È inutile che cerchiate chi ha tolto dall’arsenale la bandiera di via Pàl: l’ho presa io. Eccola qui. Il piedino più piccolo anche di quello di Wendauer è il mio. E non avrei detto niente, avrei potuto continuare a starmene in cima all’albero ad aspettare che ve ne foste andati: ero appollaiato là fin dalle tre e mezza. Ma quando Gereb ha detto che non c’è nessuno in mezzo a noi che abbia coraggio, ho pensato “Aspetta, ti faccio vedere io che tra noi di via Pàl un coraggioso c’è, se non altri Nemecsek, che è solo soldato semplice!”. Eccomi qui: ho sentito tutta la vostra discussione, ho ripreso la nostra bandiera; adesso potete fare di me quel che volete; potete picchiarmi, strapparmi la bandiera di mano, perché io non ve la do senz’altro. Avanti, su! Io sono solo e voi siete in dieci.
Che bellezza, I ragazzi di via Pàl, di Ferenc Molnar (e quante lacrime!), ma, vedete? Un bambino che pronuncia un simile discorso, nel suo coraggio e nella sua semplicità, per temi (e per epoca) non è contraddittorio con il personaggio se immerso nel giusto contesto, quello del romanzo tutto. Perché è chiaro che è il contesto, il romanzo, la voce e lo stile che forgiano e giustificano l’uso di dialoghi di un tipo o di un altro e non il contrario.
Non è solo il personaggio o solo la scena a motivare e giustificare l’uso di un dialogo, di una parola, di un’espressione, di un beat o di un tag o di nulla: è, come per tutto, il romanzo intero, la storia, il racconto, la struttura che lo sostiene e la voce autoriale. Sul punto 3 quindi possiamo sorvolare: in nessuno dei due casi è stata necessaria una didascalia, eppure si sono retti perfettamente. Non sempre la didascali aiuta, anzi a volte rende i dialoghi (soprattutto degli esordienti) meccanici, forzati, considerando anche la spasmodica ricerca di qualcosa che non sia “disse” che a volte sfocia in un uso ridicolo di altri verbi dittandi.
Dunque, quando editate i dialoghi, dovreste tenere a mente:
– il romanzo intero, il suo contesto e la sua struttura narrativa;
– la voce autoriale, il registro e lo stile generale;
– il personaggio e la scena, ovviamente, legati ai due punti sopra;
– le parole sulla carta, differenti da quelle in aria, e la lettura interiore;
– la coerenza, chiaramente, del carattere del personaggio e del suo conflitto principale.
Frequentemente, inoltre, potreste dovervi trovare a correggere:
– uso di un registro fuori dal personaggio o fuori dalla voce autoriale con conseguente uso meccanico delle parole e delle didascalie;
– uso di info-dump nei dialoghi o di spiegazioni di comportamenti di altri personaggi o “soluzioni di indagine” attraverso dialoghi meccanici, i cosiddetti spiegoni;
– poca o nulla diversificazione tra la parlata di un personaggio e quella di un altro con conseguente appiattimento dei dialoghi;
– dialoghi di tensione interrotti da beat inutili o utilizzati come stratagemmi di attesa;
– viceversa, dialoghi di tensione mandati a fiume senza beat o tag e che risultano confusi;
– uso eccessivo della punteggiatura drammatica, soprattutto puntini di sospensione, punti esclamativi e, recentemente, interruzioni di dialogo (—);
– didascalie di dialogo che spiegano il dialogo, diventando ripetitive (es. “Cazzo!, disse con rabbia” e come, se no?) nel contesto;
– dialoghi troppo pieni o troppo vuoti di sottotesto: troppa simbologia confonde, poca simbologia rende tutto piatto.
Ed ecco tutto, anche per oggi!
Chiedo scusa per il ritardo nella consegna degli esercizi; arriverò entro la lezione di domani per tutte coloro che hanno consegnato l’esercizio.
Se avete domande, come sempre, sapete dove trovarmi,
A presto!
G.
p.s. vi siete mai chieste perché il 99% dei dialoghi delle trasposizione cinematografiche non sono uguali a quelli dei romanzi?
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